Credo che nella vita di ognuno esistano oggetti d’uso quotidiano che rivestono un ruolo che trascende la mera funzione per la quale sono stati acquistati. Per me è lo zaino, complemento fondamentale delle giornate. Modelli diversi, con dimensioni differenti, si alternano da sempre nel mio guardaroba, anche in quegli anni in cui non era di moda averne uno. Dunque non solo quando, sempre più di rado purtroppo, cammino nel bosco o per la gita fuori porta, ma è quotidianamente appeso alla mia spalla.
Non so bene quale siano le motivazioni di questa preferenza, immagino che possano essere la comodità e la capienza, per poter avere sempre con me tutto l’occorrente, dal portatile alla macchina fotografica, in caso di necessità. O magari tutto ha origini più lontane, quando da bambina sognavo di fuggire e affrontare il mondo come una grande avventura, andandomi stretta la vita in un appartamento troppo piccolo, che mi relegava in una camerina con le pareti azzurre, buia e condivisa, troppo piccola per contenere i miei sogni. Ricordo ancora quando misi in una federa di un cuscino da bambola l’occorrente per la mia fuga, per fare un fagotto da legare in cima a una canna stile Qui, Qui, Qua. Preparai anche un biglietto di commiato scritto con grafia tremolante consona ai miei 7 anni e che maldestramente lasciai in giro, creando scompiglio in casa, una volta trovato da mia madre.
E il fascino dello zaino è esploso quando da adolescente ho iniziato a leggere e collezionare i numeri del National Geographic, cullandomi nell’idea di poter vivere realizzando reportage, come gli autori di cui ammiravo gli scatti e le parole. Lavorare viaggiando, spostandomi per il mondo solo con uno zaino e la borsa della macchina fotografica, all’epoca una Minolta Dynax, l’unica reflex che rientrava nel mio risicato budget. E poi l’acquisto di uno zaino blu di tela di un marchio sportivo americano, anche se non quello più noto, abbastanza grande anche per contenere i testi universitari e che mi ha accompagnato fino alla laurea, prima che le cuciture cedessero e l’impermeabilizzazione iniziasse a sfogliarsi in svolazzanti frammenti che si appiccicavano ovunque. Eppure non ricordo di averlo buttato, chissà in quale dei miei traslochi sarà andato perso, assieme all’idea di me fotoreporter…
Scappare. Lasciare tutto e ricominciare altrove, penso sia il desiderio più diffuso in questi tempi frenetici e arrabbiati, ma è un sogno che coltivo da più di quarant’anni, all’epoca forse influenzata dalla lettura di “Senza famiglia”, affascinata dalle peripezie di Remì o di qualche altro romanzo emozionante come “L’isola del tesoro” o “Le avventure di Huckleberry Finn”, per volare lontano, almeno con la fantasia.
E oggi non è diverso. Il quotidiano mi spaventa, con le incombenze, i doveri e la costante paura di non essere abbastanza per sostenerli. Soprattutto quando un familiare ha problemi di salute e penso di non farcela, fra frustrazione, angoscia e sensi di colpa per tutto quello che dovrei fare, ma non riesco. Guardo lo zaino, adesso nero con inserti arcobaleno e provo sollievo, pensando alla possibilità di caricarlo dello stretto necessario e andare ad allargare la prospettiva. Un pensiero fugace, la realtà non sono “quindici uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rum”, ma è comportarsi da adulti, soprattutto quando il gioco si fa duro e l’apprensione toglie il sonno. E sempre per citare Stevenson “tieni per te le tue paure, ma condividi con gli altri il tuo coraggio”. Tuttavia, quando senti che quest’ultimo ti fa difetto, prendi una bottiglia, non necessariamente di rum e confidati con una persona amica, per riempire lo zaino di affetto, di sostegno e di amicizia, per fronteggiare con più vigore ogni orizzonte, anche quello vicino a casa.