Non si finisce mai di meravigliarsi. Perché è davvero una meraviglia ascoltare il giornalista Michele Smargiassi tenere una conferenza sulla fotografia. Per di più, in un luogo incantevole come il cinema Modernissimo di Bologna.
E no, il mio giudizio non è falsato dal fatto che, da anni, leggo con interesse gli articoli e il blog della firma del quotidiano La Repubblica, stimolo a conoscere meglio il mondo della fotografia.
Quella di sabato 6 aprile è stata davvero una esposizione coinvolgente. L’occasione era ghiotta, una conferenza dal titolo “Vivian e gli altri. L’invenzione del fotografo sconosciuto”, con una foto della Maier sull’invito e ho quindi deciso di unirmi agli appuntamenti del fotocrate. Che si è rivelato non solo una penna di prim’ordine, ma anche un oratore arguto e capace di tenere viva l’attenzione del numeroso pubblico per più di un’ora e mezzo, spiegando come la storia sia spesso riscritta a uso e consumo di chi la racconta. È il caso della bambinaia fotografa, che tanto amo, ma anche di altri autori meno mainstream come Eugène Atget, che, per mancanza mia, ho scoperto solo leggendo “Voglio proprio vedere” la più recente opera di Smargiassi. E già lì, nel corso dell’intervista “impossibile ma non improbabile”, si faceva strada la tesi dell’autore, per la quale, a fronte di un fotografo la cui biografia è poco nota, si può procedere alla costruzione di un personaggio che sia più accattivante, maggiormente spendibile presso il grande pubblico. Vale per Maier, vale per Atget, per Disfarmer, per Lartigue e per gli altri citati. Una tesi che fa riflettere: inventare, per venderla meglio, un’immagine che sia accattivante, che susciti quelle emozioni di cui il grande pubblico è perennemente affamato, indipendentemente dalla qualità del lavoro svolto. Come se la bellezza degli scatti e la qualità tecnica del fotografo non fossero elementi sufficienti per suscitare interesse. Un’ipotesi che condivido, ho provato fastidio nel leggere da più parti della stranezza della Maier, immaginandola più come una persona, come tante, che, non riuscendo a sfondare nel campo della fotografia, opta per un mestiere che le consenta di vivere, coltivando la sua passione.
Lo spunto mi ha dato modo di pensare a qualcosa su cui non mi ero mai soffermata.
E se fosse paura di riconoscere che i talenti possono essere propri anche di persone ordinarie, ma straordinarie nell’applicarsi costantemente per perfezionare il proprio lavoro? Quasi avessimo paura di riconoscere che ciascuno di noi può uscire dalla mediocrità, con l’impegno, lo studio, la voglia di confrontarsi e migliorare. Più facile attribuire al genio, anche un po’ squilibrato, l’arte, il dono innato, la grazia ricevuta, la cui mancanza ti condanna a rimanere dove sei. Non voglio togliere meriti ai grandi, sono certa che qualcuno nasca con un occhio più attento, una visione più accurata e con l’abilità di vedere oltre. Ma fra i due opposti, genialità e mediocrità, esistono una gamma di sfumature che sono frutto dello studio, di tempo sottratto allo scroll dei social o ai video di tiktok.
Vivian Maier ogni giorno fotografava e affinava il suo sguardo, coglieva l’attimo, imparava a scattare senza sprecare pellicola. Atget era un autore-editore che viveva vendendo fotografie persino ai musei. Niente di straordinario, ma solo impegno, determinazione, passione e studio. Qualità che non hanno molto appeal sul grande pubblico, anestetizzato da una pluralità di stimoli forniti solo per impedire di pensare, come Bradbury aveva preconizzato in Fahrenheit 451.
Queste, chiaramente, sono conclusioni mie, scaturite a margine di una bella conversazione sulla fotografia, con un esperto di grande spessore, che spero di riascoltare anche sabato 20 aprile, sempre al cinema Modernissimo.