Visitare una esposizione delle opere di Sebastião Salgado è un’emozione. Le sue fotografie in bianco e nero comunicano sentimenti, non restituiscono solo un’immagine, ma lasciano intuire la storia che si cela dietro al fotogramma. Lo avevo già provato visitando Genesi, ai musei San Domenico a Forlì, trovandomi avvinta dalla forza di certi scatti. Ho poi visto (e rivisto) il documentario “il Sale della Terra”, commuovendomi ogni volta e letto il suo libro “Dalla mia Terra alla Terra”, edito dalla casa editrice Contrasto, cercando di immaginare cosa significhi registrare il male e cercare una cura per esorcizzarlo.
Perché Salgado ha visto e documentato orrori che non possono lasciare indifferenti, nemmeno se filtrati da un obiettivo. Un lavoro documentaristico minuzioso, che pone l’accento sulla vita dell’uomo che lotta per la propria esistenza, tra mille difficoltà, nelle zone più sfruttate del pianeta.
Poter ammirare le fotografie dedicate ai migranti della terra, raccolte sotto il significativo titolo “Exodus. Umanità in cammino”, in mostra in queste settimane al Mar di Ravenna, è un dono. Nonostante il nutrito pubblico che affollava le sale, segnale evidente che la mostra coglie nel segno, mi sono soffermata su ogni scatto, osservandone i dettagli, rapita dalle storie che raccontano. Non sono foto facili, alcune racchiudono il dolore più cupo, altre lasciano trasparire la speranza, coi bambini che giocano e sorridono, pur in condizioni estreme. Occhi che parlano, inquadrature che denunciano, più di 180 fotografie che toccano in profondità l’osservatore. Tante immagini, potenti, che impongono di mettersi in discussione, portando a interrogarsi su cosa significhi nascere nella parte più svantaggiata del mondo.
Come scrive lo stesso Salgado “Nessuno ha il diritto di mettersi al riparo dalle tragedie del proprio tempo, poiché siamo tutti responsabili, in un certo modo, di quello che succede nella società in cui abbiamo scelto di vivere. Dobbiamo riconoscere che questa società dei consumi, di cui facciamo parte, sfrutta e impoverisce tantissimi abitanti del pianeta.”
Sono scatti forti, soprattutto le stampe che raccontano il genocidio in Ruanda, ma non soltanto quelle, anche le foto che ritraggono le piccole vittime dei giochi di potere dei grandi della Terra, sono un monito. Così come gli stessi bellissimi ritratti, che occupano l’ultima sala dell’esposizione, pur voluti dai soggetti della foto, restituiscono all’osservatore sguardi che parlano di sofferenza, di resa, di paura. Certo, in qualcuno c’è la speranza la, in altri la voglia di ribadire la propria esistenza, nonostante tutto. Ma nessuno può sentirsi assolto. Una mostra che deve essere vista, da cui ci si deve lasciare colpire e che deve far pensare. Dopo vent’anni, da quando quegli scatti sono stati realizzati, non è cambiato nulla, i poveri della terra continuano a morire nell’indifferenza generale.
Un grido di aiuto, per un cambiamento non solo possibile, ma indispensabile.
Fino al 2 giugno al Museo d’Arte della città di Ravenna, un appuntamento da non mancare, per osservare, per riflettere, per mettersi in discussione.