L’ultimo lustro del secolo scorso ha coinciso con la mia esperienza universitaria. Anni di grande confusione, non per lo studio, bensì perché impegnata a scoprire chi volevo essere nonostante le indicazioni, forse un po’ troppo pressanti, di colei che, avendomi generato, era convinta di conoscermi meglio di quanto non potessi farlo io.
Non avendo provato l’esperienza genitoriale, non so se il pensiero materno fosse corretto o meno, ma di certo ho imboccato un percorso differente da quello impostomi, con tutta la fatica del caso, tra sensi di colpa e una enorme paura di non farcela.
Percorso che è stato comunque una mediazione tra il mio sogno assurdo e irraggiungibile e quello che mi si voleva far fare. In sintesi, impossibile pensare di andare a Venezia per diventare un’antropologa, ma altrettanto scomoda l’idea di diventare maestra elementare.
Dietro il sogno veneziano (che sia chiaro, evidentemente è ancora lì, ho adorato l’ambientazione di Pane e tulipani, al di là della bellezza del film in sé), c’era un modello, uno dei tanti, che avrei voluto non dico emulare, perché decisamente troppo grandi, ma, più modestamente, seguire; Fosco Maraini.
All’epoca era ancora in vita e Segreto Tibet e Ore giapponesi avevano infiammato il mio cuore, già innamorato dell’Oriente e soprattutto del controverso Giappone, dopo la lettura di alcuni autori simbolo di quella cultura così lontana e così affascinante.
In effetti, sulla questione meriterebbe un approfondimento il danno fatto dalla mia meravigliosa e dolcissima amica Chiara, nel regalarmi il primo libro che ha acceso la miccia dell’interesse per il Giappone, ma non è questa la sede.
Maraini, così come Tiziano Terzani, incarnavano il prototipo di ciò che avrei voluto essere anch’io, giornalista, narratore e fotografo.
La fotografia era entrata prepotentemente nella mia vita con l’acquisto di una reflex 35mm. La mia adorata Minolta, per cui misi da parte ogni singola lira (che bello essere così vintage da aver fatto il salvadanaio nel barattolo giallo della citrosodina, raccogliendo le monetine da 500 e le carte da mille e duemila lire…) per comprarla in un negozio che non esiste più.
Già solo il nome mi metteva una felice agitazione, volevo andare proprio da Balivo e ricordo bene, nonostante i più di trent’anni passati, l’emozione bellissima nel varcare la soglia di quel tempio, che consideravo il regno di quelli bravi e in cui non mi sentivo nemmeno degna di aver accesso.
E tutta questa passione era alimentata dalle copertine e dai servizi mozzafiato del National Geographic, le cui copie gelosamente custodite ho maldestramente perso in uno dei tanti traslochi.
Ero pronta.
Volevo essere una reporter, ma anche una studiosa, incontrare popoli lontani e raccontarne.
Sogno che cozzava rumorosamente con chi mi voleva maestra, magari proprio nella scuola sotto casa.
Da qui la via di mezzo.
E ho scoperto che le vie di mezzo sono esattamente quello che il loro nome indica, un accontentarsi a metà, o, più semplicemente, significano scontentare tutti.
Per questo quando qualcuno mi chiede un consiglio, non riesco a darne.
Non posso nemmeno concepire come si possa rinunciare al sogno, ma so anche che, spesso, i sogni si scontrano con una realtà fatta di impedimenti concreti.
E il compromesso ha un gusto insipido che non appaga…