Una fotografa che è diventata famosissima quando il suo patrimonio di foto e di rullini ancora da sviluppare è stato disperso a seguito di una vendita all’asta per il mancato pagamento dei magazzini in cui erano scrupolosamente stoccati. E questo archivio è finito fra le fauci della rete, fra vendite su eBay e post su Instagram, favorendo la nascita di un mito. Poi l’intuizione di John Maloof ha determinato l’affermazione di questa figura misteriosa e un po’ sui generis. La bambinaia stramba con l’hobby della fotografia. O magari la fotografa che per mantenersi aveva scelto un mestiere che le era consono. Chissà.
Quello che è certo è che questa donna aveva talento e tecnica, come dimostrano i negativi in mostra a Bologna, assieme a circa 150 fotografie esposte a Palazzo Pallavicini, fino al 28 gennaio 2024.
Non una serie di scatti, ma uno, o al massimo due, per soggetto, ben inquadrati e a fuoco. Abilità frutto di studio e passione e di uno sguardo non comune, molto acuto e attento, come probabilmente deve avere un fotografo di strada per immortalare l’attimo. Magari affinata anche dalla necessità, non disponeva di molto denaro e la fotografia è una passione dispendiosa. Anche la scelta di sviluppare solo una minima parte della sua produzione forse nasce dalla contingenza, ma quello che è certo è che questa signora, con la passione per i selfie ante litteram, affascina. Dai suoi scatti appare severa, austera, rigida nei suoi vestiti anonimi, eppure c’è tanta ironia in molte delle foto esposte. Così come cronaca, desiderio di raccontare l’attualità, di fermare sulla pellicola situazioni ed eventi specifici.
È impossibile conoscere qualcuno che aveva fatto della riservatezza uno stile di vita, eppure oggi quando si parla di Vivian Maier difficilmente si trova qualcuno che non esclami “ah, la tata fotografa!”
Personalmente l’ho inseguita da quando ho letto di lei sulla stampa cinque anni fa. L’immagine che mi sono fatta di questa fotografa è stata probabilmente influenzata dal momento personale che stavo vivendo, sentendola vicina e, forse, identificandomi nella sua stranezza. Ho avuto la fortuna di passare, con una cara amica, un weekend a Trieste per ammirare finalmente i suoi scatti e poi a Milano, in un’altra piccola esposizione dedicata solo alla sua produzione a colori, in uno spazio espositivo che oggi, purtroppo, non esiste più. Ho letto libri di autori che ne hanno ricostruito la vita, con punti di vista molto differenti, ho guardato più volte il docufilm di Maloof, continuando a immaginare cosa poteva aver provato nel vivere una vita che, magari, non le apparteneva pienamente.
Era brava e avrebbe potuto essere una grande fotografa, come Eve Arnold o come Inge Morath. E magari vivere della sua arte.
Ma la vita non sempre lascia realizzare i sogni. Talvolta è necessario scendere a compromessi e accettare una realtà fatta di un’occupazione diversa, che consenta di fare della propria passione almeno un hobby.
Ecco è questo che immagino di Vivian Maier, la mancanza di un’occasione per essere pienamente sé stessa.
Che è anche quello che vedo scattando una foto allo specchio.