La scorsa settimana, fra i testi in attesa di essere letti, ho scelto un romanzo di Georges Simenon, con l’intento di staccare la mente, dopo essermi dedicata a letture abbastanza impegnative. Grave errore sottovalutare un autore che amo infinitamente; in poche ore sono finita invischiata in un racconto che per giorni si è insinuato persino nei miei sogni.
Non so se l’autore per la stesura de “La scala di ferro” si sia ispirato a un fatto di cronaca, magari un trafiletto intravvisto sul giornale, fra le notizie di nera o se ogni singolo fotogramma sia un parto della sua penna sopraffina, ma certamente è un romanzo che non lascia indifferenti.
Parte in sordina, quasi lento. Il racconto è in prima persona e si sviluppa attraverso gli occhi del protagonista, un uomo di quarant’anni con una vita apparentemente banale: una moglie più matura, già vedova, sposata 15 anni prima, senza figli, un lavoro da rappresentante per la ditta che la donna ha ereditato dal padre.
Un universo costituito da loro due soli, un’unica coppia di amici,che egli conosce solo superficialmente, perché frequentati da sempre dalla moglie e un universo di persone che lo ignorano, qualcuno addirittura lo disprezza, probabilmente per fedeltà al precedente marito, di cui ha preso il ruolo.
In apertura del romanzo, essendo afflitto da alcuni malanni, è relegato in camera da letto, stanza comunicante con l’attività commerciale della moglie posta al piano inferiore. Da lì ascolta i rumori di una quotidianità che crede di conoscere, ma che pagina dopo pagina, si rivelerà differente da come si ostinava a vederla.
Ancora una volta la genialità di Simenon si esprime al meglio nel tratteggiare i caratteri dei diversi personaggi che costituiscono la storia: piccinerie, pusillanimità, maldicenza ma anche tanta indifferenza per ciò che accade al di fuori della propria sfera intima. E poi la crudeltà nel perseguire i propri obiettivi da parte di qualcuno che, senza il minimo rimorso, mette in scena i peggiori delitti pur di ottenere ciò che desidera, senza mostrare tentennamenti o sensi di colpa.
Eppure non c’è mai un giudizio, nonostante il male non c’è una critica, solo un’oggettiva descrizione degli eventi che permette al lettore la facoltà di formulare il proprio atto di accusa a seconda della personale sensibilità. La sentenza è compito dello spettatore, nessuno è incolpevole, anche le vittime si lasciano annientare, per paura, per incapacità di staccarsi dal proprio carnefice.
Una lettura che mi ha lasciato l’amaro in bocca perché è specchio fedele della realtà, dietro ogni porta in cui vivono persone apparentemente normali si cela un dedalo di situazioni, emozioni, tradimenti che possono sfociare nei delitti più efferati.
Non c’è giudizio, ma non c’è nemmeno pietà per questa umanità sconfitta dalla propria debolezza, dalla mancanza di etica, dall’egoismo che non teme di macchiarsi di colpe ignobili, senza un motivo che non sia il proprio tornaconto.
Una umanità senza redenzione quella contenuta in meno di duecento pagine che, con la consueta maestria, Simenon descrive sin nei più piccoli dettagli. Un romanzo durissimo che non ha assolto lo scopo per il quale era stato scelto dalla pila dei libri in attesa di essere letti, ricordandomi invece la grandezza di questo autore, profondo conoscitore dell’animo umano e dei suoi tormenti.